
Di Rainero Schembri
Dal mese di settembre Greenpeace Italia ha un nuovo direttore esecutivo: Chiara Campione, che sostituisce nell’incarico Giuseppe Onufrio, rimasto al vertice per 16 anni. Palermitana, laureata in Scienze Agrarie e dottorata in Sistemi Agrari Arborei e Forestali, Chiara Campione dopo alcuni anni di esperienza nella cooperazione internazionale è arrivata a Greenpeace Italia nel 2007 come responsabile della campagna foreste passando, negli anni seguenti, al ruolo di Global Project Leader. Negli ultimi anni si è distinta nel coordinamento del progetto “La giusta causa” contro l’ENI, una delle più importanti azioni legali intraprese dall’organizzazione. In concreto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadini che avevano fatto ricorso alla Suprema Corte, chiedendo se in Italia fosse possibile o meno portare le aziende inquinanti in tribunale per chiedere giustizia climatica. Per la cronaca, nel 2015 la Campione è stata nominata a Palermo Donna dell’Anno, nella Giornata Internazionale dei diritti delle donne. Di seguito riportiamo l’intervista rilasciata dalla Direttora a Rea International.
Quale è l’obiettivo principale che intende raggiungere come nuova direttora di Greenpeace Italia?
Greenpeace deve restare una voce che non ha paura di disturbare, ma che sa anche costruire. Per me significa tenere insieme due tensioni: la radicalità di chi guarda la crisi climatica senza abbassare lo sguardo e la concretezza di chi sa trasformare questa consapevolezza in cambiamento reale. In Italia, vuol dire chiamare per nome il potere delle grandi aziende fossili come Eni, denunciare la scarsità d’acqua che diventa nuova emergenza nazionale, difendere il mare come confine fragile e decisivo. Ma soprattutto vuol dire portare nuove persone dentro la nostra storia: non solo gli attivisti più convinti, ma anche chi non ha ancora deciso, chi non si sente rappresentato da nessuna parte. La sfida sarà trovare un linguaggio nuovo, che apra uno spazio comune.
Molti hanno la sensazione che le guerre e le violazioni dei diritti umani stanno mettendo in questo momento un po’ in subordine le crisi ambientali. E’ così?
Le guerre bruciano vite e speranze. Lo vediamo oggi a Gaza, dove la violenza cancella ogni giorno diritti e futuro. Ma pensare che la crisi climatica sia un capitolo a parte è un errore. Il legame è evidente: i cambiamenti del clima esasperano la scarsità delle risorse, alimentano instabilità, spingono intere comunità a fuggire. E la corsa alle fonti fossili, spesso, è la miccia nascosta dietro ai conflitti. Non esiste una gerarchia tra pace, diritti e ambiente: sono facce della stessa crisi. La transizione ecologica non è solo una scelta ambientale, è anche un passo necessario verso giustizia e pace.
Greenpeace si è sempre opposta all’accordo UE-Mercosur… Secondo von der Leyen molte obiezioni sono ormai superate. Lei cosa ne pensa?
Non sono superate, e non lo saranno finché l’accordo resterà quello che è: una trattativa che mette i profitti davanti alle persone e alla natura. L’UE-Mercosur rischia di svendere l’agricoltura europea, aprendo le porte a importazioni prodotte con regole più deboli. Ma il vero prezzo lo pagherebbero i boschi, le foreste, l’Amazzonia che già oggi sfiora il punto di non ritorno. Significherebbe più deforestazione, più emissioni, più comunità indigene spinte ai margini. È un patto che arricchisce poche multinazionali e impoverisce il futuro. Se l’Europa vuole davvero parlare di transizione, deve scegliere un’altra strada: investire in agroecologia, difendere chi produce cibo in modo sostenibile, proteggere i polmoni verdi del pianeta.
La Cassazione ha dato ragione a Greenpeace Italia e altri sul ricorso per giustizia climatica. Quale impatto concreto potrà avere questa decisione?
È una sentenza che cambia la prospettiva. Per la prima volta, un tribunale dice ai cittadini: potete chiedere conto alle grandi aziende del danno climatico che vi colpisce. È un varco che si apre nella corazza dell’impunità. Da oggi le imprese non possono più nascondersi dietro alle scuse o alla mancanza di leggi: il diritto a un futuro vivibile entra nelle aule di giustizia. Non è solo un fatto legale, è un fatto culturale. È la conferma che la crisi climatica non è un destino, ma una responsabilità. E che chi inquina deve pagare.
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